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I droni per lo studio di emissioni vulcaniche inaccessibili

ROMA – Un team internazionale guidato dall’University College London (UCL, UK), che ha visto la partecipazione dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV) con il gruppo di ricerca di Vulcanologia del Dipartimento DiSTeM dell’Università di Palermo, ha sviluppato e utilizzato una nuova tecnologia basata sull’uso dei droni per la misura dei gas vulcanici emessi dai vulcani attivi, dimostrando così che anche nei vulcani inaccessibili e pericolosi come il Manam (in Papua Nuova Guinea), i droni rappresentano l’unico modo per realizzare importanti misure per caratterizzarne lo stato di attività in condizioni in sicurezza.  I risultati della ricerca sono stati pubblicati sulla rivista Science Advances dell’AAAS (American Association for the Advancement of Science).

Oggi, la tecnologia offre agli scienziati i mezzi per condurre ricerche che prima erano solo un sogno. Ciò che apparentemente era fuori portata nel corso degli anni ora è raggiungibile, come dimostrato nel nuovo progetto internazionale Aerial-based Observations of Volcanic Emissions (ABOVE).

Questo progetto ha utilizzato tecnologie innovative, cioè droni (Unmanned Aerial System – UAS) con a bordo apparecchiature miniaturizzate di campionamento, per raccogliere misure di gas vulcanici presso i vulcani di Manam e Rabaul in Papua Nuova Guinea. Questi sono dei forti emettitori di gas, ma poco si sa su di loro perché i pennacchi sono di difficile accesso usando tecniche terrestri, specialmente in caso di eruzioni.

ABOVE sta cambiando il modo in cui gli scienziati campionano le emissioni di gas vulcanici attraverso lo studio condotto nell’ambito del Deep Carbon Observatory, una comunità globale di scienziati impegnati in una ricerca decennale che punta a una migliore comprensione del ciclo naturale terreste del carbonio.

Sfruttando i recenti progressi nella tecnologia dei droni, gli UAS sono in grado di acquisire misurazioni aeree di gas vulcanici direttamente dai pennacchi. Questo progetto trascende i tradizionali confini disciplinari, riunendo scienziati, ingegneri e piloti per studiare alcuni dei vulcani più inaccessibili ma fortemente degassanti del mondo.

Nel mese di maggio del 2019, un team internazionale di scienziati ha intrapreso un’ambiziosa campagna di misure presso i due vulcani in Papua Nuova Guinea, entrambi tra i più prodigiosi emettitori di anidride solforosa sulla Terra e tuttavia privi di qualsiasi misurazione della quantità di carbonio emessa nell’atmosfera.

Il team comprende scienziati provenienti da Regno Unito, Italia, Stati Uniti, Papua Nuova Guinea, Svezia, Germania e Costa Rica. Il progetto unisce diversi gruppi che lavorano sulle misurazioni dei gas vulcanici tramite droni in tutto il mondo.

I gruppi hanno schierato vari tipi di drone (ad ala fissa, ala rotante e sistemi combinati) dotati di sensori di gas, spettrometri e dispositivi di campionamento per acquisire misurazioni vicino alle emissioni di anidride carbonica e altri gas. Le diverse metodiche sono state comparate per verificarne gli ambiti di impiego ottimale.

Il team italiano ha messo a disposizione la strumentazione geochimica sviluppata nei propri laboratori, per l’installazione a bordo di droni messi a punto da un team dell’Università di Bristol, sia ad ala fissa, più adeguati a voli su lunghe distanze e per fare misure di composizione attraversando i gas del plume, che ad ala rotante, più versatili per campionamento di gas in punti fissi. L’integrazione dei sistemi è stata effettuata in stretta collaborazione tra i due team. Già dalle fasi preliminari del progetto un drone ad ala rotante completo di sensoristica geochimica e altra strumentazione portatile, sono stati lasciati a disposizione dell’osservatorio vulcanologico di Papua Nuova Guinea, il Rabaul Volcanological Observatory.

Utilizzando nuovi sensori di gas e spettrometri miniaturizzati, e progettando innovativi dispositivi di campionamento attivabili in maniera automatica, i ricercatori sono stati in grado di far volare droni fino a 2 km di altezza e 6 km di distanza e di raggiungere le inaccessibili aree dove eseguire le misurazioni.

Infatti particolarmente impegnativa è stata la campagna sul vulcano Manam, che ha un diametro di 10 km e un’elevazione di 1800 m sul livello del mare, con gran parte delle zone sommitali totalmente inaccessibili. Si trova su un’isola a 13 km dalla costa nord-orientale della Papua Nuova Guinea.

Questo vulcano era noto da misure satellitari essere uno tra i maggiori emettitori di anidride solforosa (SO2) al mondo, ma prima di questo progetto non si sapeva nulla sulla sua produzione di CO2, molto più difficile da misurare da lontano a causa delle alte concentrazioni nell’atmosfera di background.

Infine, proprio il rapporto di abbondanza tra queste le specie CO2 e SO2 risulta essere fondamentale per determinare la probabilità del verificarsi di un’eruzione, perché correlata con la profondità nella quale il magma risiede, ed entrambe le specie sono state rilevate durante le campagne di misura.

Rigopiano: identificate le caratteristiche e i tempi esatti della valanga

Con uno studio internazionale si è analizzata, fin nei minimi dettagli, la dinamica della slavina che nel 2017 travolse l’hotel di Rigopiano, riportando con esattezza la cronologia dell’accaduto

RIGOPIANO – Il 18 gennaio 2017 una valanga nella località di Rigopiano in Abruzzo colpì rovinosamente un Resort-hotel. L’evento, che determinò la perdita di alcune persone, fu osservato solo da due testimoni che, fortunosamente, si trovavano all’esterno dell’edificio.

Tanti sono gli interrogativi e le ipotesi che ruotano intorno a questa tragica vicenda. Uno studio multidisciplinare a cura dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV), del Politecnico di Torino, del WSL Institute for Snow and Avalanche Research SLF di Davos (CH) e dell’Osservatorio di Geofisica dell’Università di Monaco (DE) ha cercato di fornire delle risposte sulle tempistiche e sulle dinamiche della valanga.

La ricerca “Seismic signature of the deadly snow avalanche of January 18, 2017, at Rigopiano (Italy)”, appena pubblicata sulla rivista Scientific Reports, ha appurato che tutto è accaduto in poco meno di un minuto e mezzo. La valanga si è staccata dal Monte Siella alle ore 15:41:59 (orari UTC), nel suo percorso verso la valle è entrata in un canyon e all’incirca alle 15:43:20 ha colpito l’hotel di Rigopiano ad una velocità di circa 100 km orari. 

Per giungere a questo risultato così preciso, i ricercatori hanno prima analizzato la tempistica delle telefonate di soccorso così come riportate dalla cronaca giornalistica e poi valutato numerosi dati tra cui l’analisi della Rete Sismica Nazionale e la modellazione numerica della valanga, elaborati poi in studi ingegneristici e sismogrammi teorici ottenuti attraverso simulazioni.

Questo lavoro così complesso e multidisciplinare evidenzia una nuova lettura della dinamica dell’evento suggerendo, tra l’altro, potenziali utilizzi non tradizionali di una rete di monitoraggio sismico.

“Una prima ipotesi”, afferma Thomas Braun, uno degli autori della ricerca, “nata dall’osservazione di un segnale sismico sospetto, è stata quella che tale segnale fosse dato dall’impatto della valanga stessa con l’albergo. Un’analisi più approfondita ha rivelato, invece, l’esistenza di tre distinte fasi sismiche, che potevano sostenere una seconda l’ipotesi, quella che la valanga si fosse propagata verso valle in tre fasi consecutive.

Per giungere a questi risultati come prima cosa abbiamo ristretto la finestra temporale in cui è avvenuta la valanga”, spiega Thomas Braun, “Per fare ciò ci siamo basati sulla cronologia e sul contenuto delle chiamate e dei messaggi di emergenza inviati dall’hotel. Alle 15:30 (orari UTC) è avvenuta l’ultima chiamata dalla struttura mentre alle 15:54 c’è stato un tentativo di invio di un messaggio WhatsApp di richiesta di aiuto da una persona rimasta bloccata dalla neve. Abbiamo dedotto che la valanga è avvenuta in questa finestra temporale di 24 minuti. Successivamente abbiamo cercato dei segnali sismici ipoteticamente generati dalla valanga. In quel periodo eravamo nel pieno della sequenza sismica dell’Italia centrale, con epicentri a circa 45 km a ovest di Rigopiano. Analizzando i segnali registrati dalle stazioni sismiche, abbiamo notato che la stazione GIGS posizionata sotto il Gran Sasso, aveva registrato un segnale anomalo nei 24 minuti identificati come finestra temporale del distacco della valanga. Di questo segnale”, prosegue il ricercatore, “abbiamo poi studiato il contenuto spettrale e la direzione di provenienza osservando così tre distinte fasi sismiche avvenute a distanza di pochi secondi. La domanda decisiva che nasce da tale osservazione è come una valanga, che si muove in superficie, possa trasmettere energia sismica nel sottosuolo.

Sulla base della topografia del luogo, tenendo conto della tipologia, della temperatura e dell’umidità della neve, sono state eseguite centinaia di modellazioni numeriche per ricostruire il tragitto e la dinamica della valanga, che hanno fornito risposta al quesito: lungo la traiettoria della valanga esistono tre punti dove il “momento”, dato dal prodotto altezza per velocità della valanga, diventa massimale. Questi punti corrispondono al passaggio della valanga nel canyon, esattamente, all’entrata, e alle due successive deflessioni. Il lavoro appena pubblicato ha quindi permesso di sincronizzare le modellazioni con le osservazioni e di stimare i tempi dell’evento.

La ricostruzione dell’evento”, aggiunge Thomas Braun, “ha evidenziato che la valanga nella discesa verso valle ha percorso in tutto 2400 metri e ha travolto alberi e rocce, cambiando massa con incremento continuo del proprio peso specifico. Oggi sappiamo che la velocità con cui la valanga ha colpito l’albergo è stata di 28 metri al secondo, quasi 100 km orari. I ricercatori dell’Università di Monaco hanno calcolato dei sismogrammi teorici che – comparati con il segnale registrato alla stazione GIGS – trovano maggiore coerenza se si assume che il segnale sismico fosse stato generato durante il passaggio della valanga nel canyon.

I ricercatori del Politecnico di Torino, invece, hanno studiato in dettaglio, dal punto di vista ingegneristico, l’impatto, il collasso e la dislocazione dell’edificio principale dell’hotel e, insieme con il WSL Institute for Snow and Avalanche Research SLF di Davos, hanno indagato sulla dinamica della valanga analizzando la topografia del pendio prima e dopo l’evento. 

“Attraverso le nostre analisi”, conclude il ricercatore, “è stato possibile determinare anche l’esatto orario in cui si è generata la valanga e quello in cui è stato colpito l’hotel. 

Applicando questa metodologia multidisciplinare, si può quindi immaginare un potenziale uso della rete di stazioni sismiche, appositamente configurata per i territori montani, per monitorare valanghe in luoghi remoti e impervi, utile per una più completa comprensione del fenomeno”.

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La scheda

Chi: Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV), Politecnico di Torino, WSL Institute for Snow and Avalanche Research SLF di Davos, Osservatorio di Geofisica dell’Università di Monaco.

Cosa: Uno studio multidisciplinare ha cercato di fornire delle risposte sulle tempistiche e sulle dinamiche della valanga che il 18 gennaio 2017 ha colpito un hotel a Rigopiano, in Abruzzo.

Dove: La ricerca “Seismic signature of the deadly snow avalanche of January 18, 2017, at Rigopiano (Italy)”, è stata pubblicata sulla rivista Scientific Reports.

Link: https://www.nature.com/articles/s41598-020-75368-z

STROMBOLI, MISURATA LA “MEMORIA” DEL VULCANO PER STIMARE LE PROBABILITÀ DI ERUZIONI ESPLOSIVE

Un approccio multidisciplinare ha permesso di stimare la probabilità del ripetersi
di esplosioni più intense dello Stromboli dopo che una di esse è avvenuta

ROMA – Stromboli, il “faro del Mediterraneo”, è un vulcano famoso per la sua attività esplosiva di bassa energia e persistente, nota proprio col nome di attività stromboliana.

Questa caratteristica è da sempre una forte attrazione per i visitatori e per i vulcanologi di tutto il mondo.


Tuttavia, occasionalmente – come recentemente avvenuto il 3 luglio e 28 agosto 2019 –
si verificano esplosioni più intense ed improvvise che possono rappresentare un grave pericolo, i cosiddetti “parossismi stromboliani”.

Già descritti dal geologo Giuseppe Mercalli all’inizio del secolo scorso, durante questi eventi sono coinvolti
simultaneamente più crateri e vengono eruttati volumi più elevati di materiali piroclastici.


L’obiettivo dello studio “Major explosions and paroxysms at Stromboli (Italy): a new historical catalog and temporal models of occurrence with uncertainty quantification”,
appena pubblicato sulla rivista ‘Scientific Reports’ di Nature, è stato stimare le frequenze di accadimento dei parossismi stromboliani e verificare se il vulcano avesse una sua
“memoria”, ovvero se era possibile individuare una ricorrenza statistica tra un’eruzione parossistica e la successiva.

Ha quindi cercato di rispondere alle domande “quanto sono
probabili questi fenomeni esplosivi più violenti?” e “quanto diventano più probabili dopo che uno di essi è avvenuto, e per quanto tempo?”


Per rispondere a queste domande, un team di ricercatori dell’Istituto Nazionale di
Geofisica e Vulcanologia (INGV) e dell’Università di Bristol (UK) ha elaborato un nuovo catalogo nel quale vengono descritti 180 eventi esplosivi violenti di varia scala accaduti
a Stromboli dal 1879 al 2020.

In particolare, 36 dei 180 eventi esplosivi censiti sono
parossismi, analoghi a quelli dell’estate 2019. Per questo studio, i ricercatori hanno valutato in maniera critica eventi descritti in lavori scientifici del passato e informazioni riportate in testi storici e narrativi, determinando,
su basi oggettive ed omogenee, il tipo e l’intensità della attività esplosiva indipendentemente dall’enfasi dei racconti.


“Il nuovo catalogo che abbiamo messo a punto”, spiega Massimo Pompilio, primo
ricercatore dell’INGV e coautore dello studio, “ha permesso di rivedere la classificazione
di numerosi eventi attraverso l’analisi critica delle fonti storiche. Dall’analisi emerge che il
tasso annuale medio dei parossismi degli ultimi 140 anni è stato di 0.26 eventi/anno, ovvero un evento ogni 4 anni circa. Questo tasso è vicino a quello calcolato negli ultimi dieci anni, ma molto inferiore a quello raggiunto negli anni ’40 del secolo scorso, quando questi eventi parossistici erano assai più frequenti. Il vulcano alterna quindi periodi di attività intensa e periodi di relativa quiete”.

“Il breve lasso di tempo di 56 giorni osservatofra i due parossismi dell’estate 2019”, continua Massimo Pompilio, “non ѐ quindi una situazione rara.

Per ben cinque volte negli ultimi 140 anni ci sono stati tempi inter-evento ancora più brevi. Viceversa, ci sono stati quattro periodi senza parossismi lunghi dai 9 ai 15 anni, ed un intervallo senza gli stessi che si è protratto addirittura per 44 anni, dal 1959 al 2003”.


Queste informazioni sono anche utili in un contesto previsionale, ovvero per stimare le probabilità di accadimento futuro di questi fenomeni.

Andrea Bevilacqua, ricercatore INGV e primo autore dello studio spiega: “Quando un fenomeno, come un’esplosione vulcanica si verifica a intervalli irregolari nel tempo, quello
che si studia è la distribuzione dei ‘tempi di inter-evento, ossia dei tempi intercorsi in passato fra un’esplosione e quella successiva.

In particolare lo sviluppo dei modelli di interevento ci permette di calcolare la probabilità di accadimento di una esplosione in funzione del tempo trascorso dall’ultimo evento di quel tipo.

Una importante evidenza emersa dalla nostra ricerca riguarda la tendenza dei parossismi a verificarsi in gruppi.

Sempre sulla base dei dati degli ultimi 140 anni, abbiamo stimato che esiste il 50% di probabilità che un parossisma si verifichi entro dodici mesi dal precedente e il 20% di probabilità che lo segua in meno di due mesi; d’altro canto esiste anche un 10% di probabilità che trascorrano oltre
dieci anni senza che si verifichino altri parossismi”.


Una “memoria” del vulcano del tutto simile, seppur con stime di accadimento diverse, emerge considerando, insieme ai parossismi, anche le cosiddette “esplosioni maggiori”,
esplosioni più frequenti dei parossismi ma dotate di minor energia e pericolosità.


“Questo studio ha mostrato come, in termini di occorrenza dei fenomeni esplosivi più violenti dell’ordinario, lo Stromboli stia attraversando, negli ultimi anni, una delle fasi di attività più intense della sua storia recente”, conclude Augusto Neri, Direttore del Dipartimento Vulcani dell’INGV e coautore dello studio.

“La stima della ‘memoria dell’attività esplosiva più intensa dello Stromboli potrà dare un significativo contributo
alla quantificazione della pericolosità di questi fenomeni e, di conseguenza, alla riduzione del rischio associato.

Inoltre, l’analisi dei dati suggerisce l’esistenza di un processo fisico che in qualche misura influenza la frequenza delle esplosioni del vulcano rendendole eventi
eruttivi non completamente casuali.

Capire le ragioni e i meccanismi fisici che determinano
questa memoria rappresenta un’ulteriore sfida scientifica”.
La ricerca pubblicata ha una valenza essenzialmente scientifica, priva al momento di immediate implicazioni in merito agli aspetti di protezione civile

El Salvador, scoperta la vera data della misteriosa e colossale eruzione della Tierra Blanca Joven che sconvolse la civiltà Maya – Un approccio multidisciplinare ha consentito di identificare per la prima volta la data esatta della violenta eruzione che nel V secolo d.C. sconvolse la regione Centroamericana

Un team internazionale di ricercatori, cui ha preso parte l’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV), ha individuato nel 431 d.C., con un margine di incertezza di circa due anni, la data esatta dell’eruzione della caldera vulcanica Ilopango, detta della Tierra Blanca Joven, nello Stato centroamericano di El Salvador.


L’obiettivo della ricerca era datare definitivamente l’eruzione chiarendo gli impatti che questo evento ebbe nella regione, sia sul clima e l’ambiente che sulla vita dell’uomo, facendo quindi un ulteriore passo in avanti rispetto agli studi precedenti.


La violenta eruzione, che si conosceva fosse avvenuta nel periodo compreso tra il 300 e il 600, ricoprì con uno spesso strato di cenere bianca e detriti (in parte ancora visibili) vaste aree di El Salvador, tra cui siti risalenti al cosiddetto “periodo classico” della antica civiltà Maya, rendendo inabitabile per decenni un’area nel raggio di 80 km dal vulcano.


Inoltre, alcune evidenze archeologiche indicano che, intorno alla data del 431 d.C.,in El Salvador si verificò un’improvvisa interruzione della produzione delle ceramiche Maya, inattività quindi compatibile con il catastrofico evento naturale che colpì la zona.


Grazie a competenze multidisciplinari messe in campo dal gruppo proveniente da 12 Istituti di ricerca (tra cui l’Università di Oxford e l’UNAM, Università Nazionale Autonoma del Messico), gli autori dello studio ‘The magnitude and impact of the 431 CE Tierra Blanca Joven eruption of Ilopango, El Salvador’, appena pubblicato sulla rivista scientifica
Proceedings of the National Academy of Sciences (USA), hanno combinato dati geologici e archeologici provenienti dall’America centrale con le analisi chimiche di carote di ghiaccio della Groenlandia e dell’Antartico.
“Per datare eventi eruttivi del passato per i quali non si hanno informazioni scritte”, spiega Antonio Costa, Direttore della Sezione di Bologna dell’INGV e co-autore dello studio, “si utilizza principalmente un metodo basato sull’analisi del decadimento del carbonio-14 nei frammenti organici inglobati dalla miscela eruttiva.

Talvolta, come in questo caso, questo metodo non è sufficientemente accurato poiché la datazione tramite il decadimento del carbonio-14 deve essere calibrata. Il set di dati di calibrazione non è ben strutturato intorno
al momento dell’eruzione e consente di individuare un arco temporale ampio ma non una data precisa. L’aspetto innovativo e determinante in questo lavoro, quindi, è stato senza dubbio l’approccio multidisciplinare che ci ha permesso di incrociare dati provenienti da discipline anche molto diverse tra loro per ‘triangolare’ la data che stavamo cercando da tempo”.

L’Italia si candida a ospitare l’Einstein Telescope

L’Italia ha ufficializzato la proposta di realizzare in Sardegna, nel territorio del Nuorese, l’Einstein Telescope (ET), un osservatorio pionieristico di terza generazione per le onde gravitazionali che contribuirà in modo decisivo a migliorare la nostra conoscenza dell’universo e dei processi fisici che lo governano. L’Italia è alla guida del gruppo di nazioni che hanno presentato la proposta nell’ambito dell’aggiornamento per il 2021 della roadmap ESFRI, il forum strategico europeo che definisce quali saranno le future grandi infrastrutture di ricerca in Europa, in virtù della sua lunga tradizione scientifica nel settore della rivelazione diretta della Onde Gravitazionali. L’impegno assunto dal Ministero dell’Università e della Ricerca italiano ad ospitare in Sardegna questa infrastruttura è supportato dalle espressioni di interesse da tre enti di ricerca nazionali italiani: l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN, coordinatore del progetto insieme agli olandesi del Nikhef, Istituto Nazionale di Fisica Subatomica), l’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) e l’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV). La regione Sardegna, così come le università di Sassari e di Cagliari hanno espresso il loro vivo interesse all’installazione di questa infrastruttura di ricerca avanzata.

“Le grandi infrastrutture di ricerca sono volano per la crescita scientifica, tecnologica ed economica”, sottolinea Antonio Zoccoli, presidente dell’INFN. “Ospitare grandi infrastrutture di ricerca – prosegue Zoccoli –  significa attrarre nel proprio Paese giovani ricercatori e scienziati di altissimo livello da tutto il mondo, significa favorire lo sviluppo di un tessuto industriale dell’alta tecnologia, significa conquistare una leadership internazionale in campo scientifico”. “Poter realizzare questi ambiziosi progetti in Italia rappresenterebbe un’opportunità unica per catalizzare sul nostro territorio l’afflusso di nuove risorse, in termini sia di competenze scientifiche e tecnologiche sia economici, rafforzando l’eccellenza della ricerca italiana in questi ambiti, e favorendo l’innovazione e la competitività dell’industria nazionale sul mercato globale”, conclude il presidente dell’INFN.

“ET consentirà agli scienziati di rivelare eventi di coalescenza di due buchi neri di massa media nell’intero universo contribuendo alla comprensione della sua evoluzione – spiega Michele Punturo, responsabile internazionale del progetto – e consentirà di vedere sotto una nuova luce l’universo oscuro chiarendo quali ruoli giochino l’energia e la materia oscura nella struttura dell’universo”. ET esplorerà in dettaglio la fisica dei buchi neri. Questi corpi celesti, caratterizzati da un campo gravitazionale di intensità estrema e la cui esistenza è predetta dalla relatività generale di Albert Einstein, ma per questo sono anche il luogo dove cercare di osservare fenomeni non predicibili da questa teoria, aprendo nuovi capitoli della Fisica. ET rileverà migliaia di eventi di coalescenze di stelle di neutroni binarie all’anno migliorando la nostra comprensione del comportamento della materia in condizioni estreme di densità e pressione, impossibili da riprodurre in qualsiasi laboratorio. Inoltre, potremo avere la possibilità di studiare la fisica nucleare che domina le esplosioni delle supernove.

“Si tratta di un progetto molto ambizioso, che apre prospettive di follow-up nello spettro elettromagnetico a tutte le lunghezze d’onda, in cui l’INAF, con le sue avanzate infrastrutture da terra e il suo coinvolgimento in prestigiose missioni spaziali, darà un contributo di portata storica” afferma Nichi D’Amico, Presidente dell’INAF e Professore Ordinario a Cagliari. “Il progetto – prosegue D’Amico – vede come territorio ospite la Sardegna, una regione che già ha dato prova della sua determinazione nel facilitare e sostenere l’insediamento nell’Isola delle nostre Infrastrutture scientifiche; l’Ateneo di Cagliari è già coinvolto in progetti di avanguardia dell’astrofisica moderna, e possiede al suo interno expertise di fisica e ingegneria, che trovano pieno riscontro nelle tematiche scientifiche e tecnologiche che nell’Einstein Telescope rappresentano una vera sfida. L’iniziativa – conclude D’Amico – vede istituzioni scientifiche e accademiche non solo di alto profilo, ma già radicate in un territorio che manifesta una evidente volontà di investire nella scienza e nella cultura”.

ET sarà installato in una nuova infrastruttura e utilizzerà tecnologie molto avanzate e innovative e lo renderanno almeno dieci volte più sensibile nella rilevazione di onde gravitazionali rispetto agli strumenti attuali, gli interferometri per onde gravitazionali di seconda generazione Advanced Virgo, che si trova in Italia, all’osservatorio EGO European Gravitational Observatory gestito dall’INFN e dal CNRS francese, e i due LIGO negli Stati Uniti. Per questo ET, ricoprirà un ruolo unico e fondamentale nell’ambito dell’astronomia multimessaggera. L’eccezionale scoperta del 17 agosto 2017, con l’osservazione di onde gravitazionali e di radiazione elettromagnetica emesse dalla stessa sorgente, ha aperto una finestra su questo nuovo campo scientifico che verrà pienamente esplorato da ET insieme alla nuova generazione di telescopi per la rivelazione di onde elettromagnetiche da terra e dallo spazio nei quali INAF è coinvolto direttamente, come ELT, SKA, CTA, Vera Rubin Telescope, ATHENA, THESEUS, per citarne alcuni.

Per operare al meglio delle sue potenzialità, l’osservatorio ET dovrà essere realizzato in un’area geologicamente stabile e scarsamente abitata; le vibrazioni del suolo di origine sia artificiale (traffico di veicoli, attività industriali) che naturale (terremoti) possono infatti mascherare il debole segnale generato dal passaggio di un’onda gravitazionale. Dal marzo 2019 l’INGV ha installato, in collaborazione con l’INFN e Sapienza – Università di Roma, alcune stazioni sismiche presso la miniera dismessa di Sos Enattos (nel comune di Lula, in provincia di Nuoro) che potrebbe ospitare uno dei vertici del futuro osservatorio. I primi risultati, in corso di pubblicazione sulla rivista “Seismological Research Letters”, indicano che Sos Enattos è caratterizzato da un rumore sismico estremamente ridotto, tanto da collocarsi tra le 50 installazioni più “silenziose” al mondo.

“L’INGV sta contribuendo nella scelta dell’area più idonea per l’infrastruttura che rappresenterà anche una grande opportunità di misure del funzionamento della Terra, delle sue oscillazioni continue, della sua struttura interna, degli effetti astronomici che la deformano quotidianamente” affermano Carlo Doglioni e Gilberto Saccorotti, rispettivamente presidente e consigliere dell’INGV.

Il nuovo rivelatore gravitazionale è una occasione di sviluppo unica nel suo genere: si tratta di un investimento infrastrutturale di almeno un miliardo e mezzo di euro. In fase di costruzione porterà lavoro a più di 2500 persone in un territorio poco popolato; sul lungo termine sarà un grande polo scientifico di valore internazionale, destinato ad attrarre nuove risorse da investire alla frontiera della scienza e della tecnologia nuove, un motore di sviluppo e di crescita culturale per la Sardegna e per l’Europa intera.

“Il coinvolgimento dell’Università di Cagliari è una nuova dimostrazione delle politiche che l’Ateneo cagliaritano porta avanti – dichiara il Rettore Maria Del Zompo – La cultura è la base dell’innovazione, a sua volta fondamento della crescita economica. Le eccellenze presenti nell’Università di Cagliari nel campo della fisica, dell’ingegneria mineraria, energetica ed elettronica, dell’informatica, della geologia e delle telecomunicazioni rendono il contributo dell’Ateneo non solo di conoscenza, ma anche di competenza, e sarà sbocco naturale per i nostri studenti, dottorandi e ricercatori contribuendo a rafforzare la candidatura italiana. L’innovazione è il risultato di un percorso in cui la conoscenza aumenta di valore nel tempo fondandosi sulle scoperte del passato che diventano la base delle conoscenze future: l’esempio sono le miniere. Poter utilizzare una realtà del passato della Sardegna come base per lo sviluppo del futuro dimostra l’importanza della cultura universitaria, perché sono più solide le basi di chi costruisce sul passato rispetto a chi si limita solo al presente, anche in realizzazioni come questa che negli anni supereranno l’attuale stato dell’arte”.

“ET è un’impresa scientifica e tecnologica di rilevanza globale, ed esprimo quindi tutta la mia soddisfazione per questo primo traguardo, che è stato possibile raggiungere grazie in primo luogo all’impegno dell’Università di Sassari, dell’INFN e di tutti gli enti scientifici coinvolti” commenta il Rettore dell’Ateneo di Sassari Massimo Carpinelli. “Ora ci auguriamo che il nostro grande progetto venga incluso nella prossima Roadmap di ESFRI e che possa essere ospitato in Sardegna. La presenza di un centro di ricerca di prima grandezza in territorio sardo apre prospettive di eccezionale rilevanza per lo sviluppo della Regione e per il futuro di tutti i giovani sardi”, conclude Carpinelli.

Il secondo sito in fase di valutazione per la realizzazione dell’infrastruttura ET è l’Euregio Meuse-Reno, ai confini di Belgio, Germania e Paesi Bassi. La decisione sulla futura localizzazione di ET sarà presa entro i prossimi 5 anni.

INGV. Un gravimetro atomico installato sull’Etna: la prima volta su un vulcano attivo

Con il sensore atomico si potranno misurare con alta precisione le variazioni di gravità
indotte dalla risalita del magma

É stata completata, all’interno dell’Osservatorio Vulcanologico di Pizzi Deneri, a quota 2800
metri nel versante Nord dell’Etna, l’installazione del gravimetro AQG (Absolute Quantum
Gravimeter). L’installazione, coordinata da Daniele Carbone e Filippo Greco, ricercatori
dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV), è stata realizzata da un team
specializzato dell’INGV e della Muquans nell’ambito del progetto europeo NEWTON-g (NEW
TOols for terraiN Gravimetry). “L’applicazione della gravimetria sui vulcani permette di
stimare le variazioni di massa che possono avvenire, per esempio, durante la risalita del magma
verso la superficie”, afferma Daniele Carbone. “Il gravimetro AQG, prodotto da Muquans,
partner del progetto NEWTON-g, è il primo gravimetro quantico ad essere installato su un
vulcano attivo e ci permette di stimare, con estrema precisione, il valore assoluto
dell’accelerazione di gravità, cioè l’accelerazione che un corpo subisce quando è in caduta
libera. La performance dell’AQG durante i primi giorni di acquisizione in continuo”, prosegue il
ricercatore, “è stata migliore delle aspettative, nonostante l’alto livello di tremore vulcanico che
caratterizza il sito di installazione. Sulla base dei primi dati acquisiti ci aspettiamo la possibilità
di rilevare variazioni di gravità con ampiezze dell’ordine di qualche microgal che si sviluppano
su scale temporali comprese tra qualche ora e diversi mesi/anni”. Alfio Messina e Danilo
Contrafatto, tecnici dell’INGV, aggiungono che “per fornire l’alimentazione necessaria al
funzionamento in continuo dello strumento, dato che l’Osservatorio di Pizzi Deneri non è
connesso alla rete elettrica, è stato messo a punto un sistema basato su pannelli solari e un
generatore diesel che sfrutta un sofisticato modulo di controllo per la gestione delle fonti di
energia e del sistema di accumulo. L’Etna”, conclude Carbone, “si conferma, per la seconda
volta, un ‘laboratorio’ di sperimentazioni pionieristiche in ambito gravimetrico, dopo
l’installazione di tre gravimetri di altissima precisione avvenuta tra il 2014 e il 2016”.
I dati prodotti dai gravimetri in acquisizione continua permettono di integrare e completare
l’informazione fornita dalla rete multiparametrica permanente dell’Etna, che viene utilizzata,
soprattutto, per la valutazione rapida dei cambiamenti nello stato di attività del vulcano.

EMERSITO, online il nuovo sito web sugli effetti dell’amplificazione in superficie dei terremoti L’INGV lancia il sito web di EMERSITO, per offrire informazioni ed approfondimenti sugli effetti dell’amplificazione locale del moto sismico

Il sito web del Gruppo Operativo di Emergenza “EMERSITO” http://emersitoweb.rm.ingv.it

dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV) è online.

L’obiettivo del nuovo portale è far conoscere le attività del Gruppo, sensibilizzando il pubblico al tema della pericolosità sismica ed evidenziando, in particolare, l’effetto che la tipologia dei terreni superficiali produce sul moto sismico. Infatti, durante la propagazione delle onde sismiche dalla sorgente verso la superficie, e in particolare nell’attraversamento dei terreni più superficiali, tali onde possono subire una trasformazione che spesso si traduce in un aumento di ampiezza e durata dello scuotimento, ma anche in una variazione del contenuto in frequenza del segnale.

EMERSITO è un Gruppo Operativo costituito da ricercatori, tecnologi e tecnici dell’INGV di dieci sedi diverse (Bologna, Catania, Grottaminarda, L’Aquila, Milano, Napoli, Palermo, Pisa, Rende e Roma). Il Gruppo interviene al verificarsi di  terremoti sul territorio italiano di magnitudo significativa (M >5) oppure nel caso in cui si osservi un livello di danneggiamento non imputabile alla sola energia dell’evento sismico.

Durante le emergenze, EMERSITO svolge campagne di monitoraggio per studi di risposta sismica locale allo scopo di valutare i cambiamenti che il moto sismico registrato in superficie subisce a causa delle proprietà geologiche, geotecniche e morfologiche del sito in esame. Il Gruppo Operativo svolge, inoltre, attività propedeutiche alla microzonazione sismica, nelle quali vengono eseguite delle misure geofisiche per la caratterizzazione dei terreni superficiali e installate reti sismiche in area epicentrale per contribuire alla definizione di aree omogenee in termini di pericolosità sismica.

Il sito web di EMERSITO, articolato in diverse sezioni, mette a disposizione informazioni e approfondimenti sugli effetti di sito e sulle attività di microzonazione, descrivendo anche le emergenze sismiche cui EMERSITO ha preso parte negli anni: tra queste, L’Aquila (2009), Emilia-Romagna (2012), Centro Italia (2016) ed Ischia (2017).

In tutti questi eventi sono stati osservati dei casi in cui gli assetti geologici e morfologici hanno contribuito ad amplificare il moto sismico registrato in superficie, generando un aggravio dello scuotimento in superficie che può aver contribuito, insieme ad altri fattori non meno importanti legati alla vulnerabilità degli edifici e delle infrastrutture esistenti, al danneggiamento osservato.

Oltre a fornire informazioni sulle campagne in emergenza svolte, con i relativi report e le pubblicazioni scientifiche, il sito offre una sezione multimediale in cui è possibile reperire foto e video divulgativi sull’operato del Gruppo.